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La storia degli SPLATTERPINK di Diego D'Agata
 
           
Quando ci siamo formati, alla fine del 1990, uscivamo da un decennio disastroso.
I NOMEANSNO e tutte LE ALTRE BANDS di quel periodo ci fecero intuire che tutto era ancora possibile, salvo che il decennio successivo sarebbe stato ancora peggio.
C'era questo tale, Metello Orsini, che mi dice che sapeva che prima o poi avremmo dovuto suonare insieme.
Ok, gli faccio io, ho un batterista e dei pezzi pronti; il batteraio si chiamava Alistair Brison; voilà, i primi di una lunga serie di Splatterpink.
Abbiamo assistito e fatto parte dell'ultimo colpo di coda di ciò che possiamo definire 'libera espressione', leggi alla voce 'gruppi indipendenti'.
Dopo il blues, il punk, la wave, l'hard-core, ed il noise si sono comprati tutto.
Okay, a mio modo non me ne frega un cazzo.
Anche quando guido e trovo gente disposta a massacrarti per un parcheggio non me ne frega un cazzo.
Mi sarebbe sempre piaciuto tenere una 38 nel cruscotto e sparare in un ginocchio di qualche stronzo ma preferisco sedermi ed aspettare che questo stronzo si ferisca da solo; è solo questione di tempo.
Cosl va il mondo, gente. Prima o poi ci si incula da si, è la logica occulta del mercato, questa. E cosl si comprano tutto, per tapparsi e per tappare ogni sfintere, i nostri due soprattutto, bocca e culo; il primo per parlare, il secondo per cagare la merda che ci stanno facendo mangiare.
Con Met ed Alistair abbiamo lanciato il nostro grido hard-core sotto le due belle torrette di Bologna, è da ll che chi ci conosce o ci ama o ci odia.
Devo perr dire che i tempi dispari, gli stop & go, gli stacchi, etc. hanno una bella presa sul pubblico, specie se sei schizzato al punto giusto.
Io lo capii ll, nel 1988, all'Isola nel Cantiere con la bava alla bocca durante il mio primo di una lunga serie di concerti dei NOMEANSNO.
Del resto erano anni stronzi, cattivi, e pure io dopo anni mi ero rotto i coglioni del rock in 4/4 e assieme ad esso dei politici e dei bastardi d'ogni genere che, supponendo giusto, non ci avrebbero comunque mai abbandonato.
Un' urgenza simultanea e globale, in quegli anni, per un musicista non tradizionalista, quella di schizzare con i ritmi. Troppa rabbia in circolo.
Avete mai notato di come il concetto massa-velocità-tempo si addica cosl bene anche per un certo tipo di musica?
Sarebbe anche un bel titolo: Massa-Velocità-Tempo, ma suona un po' troppo progressive per cui lo lascio ad altri.
  Con questa formazione ci siamo esibiti per un anno entro il quale sembrava poter accadere di tutto; era come un continuo rumore di vetri rotti, Bologna; Massimo Volume, Mumble Rumble, Magilla, Splatterpink. Un bel quadretto.
Quando Alistair ha mollato per tornare in Scozia è cominciato un calvario batteristico che forse solo ora a distanza di undici anni e tre album pare si sia risolto, anche se con i batterai non si pur mai dire.
Strana razza, i batterai, razza bastarda. Cani che non conoscono padrone, mille pugnette, zero continuità. Beati loro.
Pure con Met le cose avevano cominciato a scricchiolare.
E' inutile, la prima formazione è sempre la migliore, se qualcuno molla devi essere bravo nell'accettare che la situazione è cambiata e che con un altro non avrai mai lo stesso suono. Non è il nuovo musicista a dover scivolare dentro alla band ma il contrario.
La maggioranza non la pensa cosl e i gruppi si sciolgono, gli Splatter invece ci sono ancora perchi io ho seguito questa linea e perchi nello stesso tempo rimangono un progetto la cui base è stata architettata da me.

Tengo a precisare, per i gossips, che nessuna defezione ha mai generato rancori, amo tutti i musicisti che hanno suonato e suonano con me, sperando di essere ricambiato, grazie, tutt'alpiy si sono generati dei bei lavori, come il primo demo, One, unica testimonianza del primo nucleo.
A proposito di batteristi zingari ce n'è uno niente male che viene a sostituire Alistair e che torna nella sua band di provenienza dopo tre mesi di prove serrate. Il tizio in questione si chiama Lele, il suo gruppo-non gruppo-gruppo i Disciplinatha.
Parliamo ancora di batteristi. Del problema dei batteristi.
Bisogna partire da due presupposti: 1) Io non sono un batterista. 2) I batteristi tendono sempre a quantizzare al massimo in 16mi e a costruire tempi su qualsiasi riff gli si proponga.
Personalmente io credo che non esistano riffs privi di metronomo per quanto spostati o rallentati al loro interno essi siano. Perfino un rallentamento infatti non cambia mai di metronomo. Per illustrarvi meglio questa teoria dovrei disporre di esempi audio ma non avendone dovrete accontentarvi.
Si possono infatti creare delle sequenze brevissime -o frames- di riffs a diversa velocità fra loro ed incollarli assieme in un unico pattern, in realtà il metronomo di questa frase risultante nonostante le variazioni di velocità non cambia in quanto noi potremmo tradurre queste variazioni come scomposizioni estreme, se volessimo misurare questa frase con un unico valore in bpm dovremo contare con un metronomo che invece di 16mi o 32mi batte il tempo in 64mi o addirittura in 128mi. Da qui la difficoltà di un batterista di poter costruire sopra un tale fraseggio un tempo 'dritto'.
 

Quando costruisci un’impalcatura con questi requisiti stai lavorando su quelli che io chiamo ‘metronomi a pelle’, semplicemente dei patterns obbligati che un batterista deve seguire più con il corpo che non con la mente.
Il problema è che il 99% dei batteristi ti romperà i coglioni cercando di infilarci dentro un tempo vero e proprio, con il suo bel charly quantizzato in 16mi. A volte odio il charleston, è la rovina dei batterai. Troppo idealizzato.
In vita mia ho suonato con circa 20 batteristi e ne ho trovato uno solo con il quale condividere questa mia teoria, il problema è che all’occorrenza non sapeva perr suonare rock, ovvero la base che ogni batterista dovrebbe avere -e non sto parlando di Leo- .
Volete sapere quello che io considero l’ibrido perfetto di un batterista? John Wright dei NOMEANSNO fuso con Tatsuya Yoshida dei RUINS. Un altro tarello niente male pur essere Joey Baron, della combriccola di John Zorn.
La cosa che ti sorprende, quando suoni, è quante volte si pur incappare in una quantità di gente che parla e straparla, specie se suoni un genere considerato scomodo in una nicchia di gente scomoda per natura.
Managements, distribuzioni, etichette indipendenti in primis; parli con loro e loro sembrano poter muovere il mondo, anche se in realtà non muovono un cazzo, l’importante è apparire, apparire sempre trendy, in una sorta di piccola enclave di eletti dove qualsiasi cosa possano fare per te, se la fanno, te la presentano sempre come una concessione, con un palo infilato nel culo e l’aria perenne di chi ti sta facendo un favore con il mal di stomaco.
Chissà perchi me li figuro tutti con occhialetti quadrati e l’aria dura dura e alternativa, di colui che sa come condividere quel pezzetto di straccio che è la propria appartenenza al tessuto sociale degli addetti ai lavori con chi h degno di appartenere al rango, perennemente avvolto in una nebbia di onnipotenza dove puoi o devi salutare qualcuno solo se questo h più tosto di te. Una vera e propria orgia povera fra poveri. Avete presente la tipologia media di fauna del Link? Ecco, quella, la tipologia perfetta di fauna che vorrebbe contare ma che non conta un cazzo.
Io personalmente, per non sbagliarmi, ho deciso di cagare il meno possibile. Da anni ormai.
Il demo successivo, nel 1993, mi vede suonare con Alberto Melega alla batteria e Alessandro Cavazza degli Orange alla chitarra. Alberto Melega, detto Bi, è praticamente una reincarnazione di Keith Moon, se ve lo dico potete fidarvi.
Questo demo rappresenta più una preproduzione di quello che sarà il nostro primo cd che non un demo vero e proprio.
I PRIMUS stanno andando alla grande e la gente non ha capito quasi una sega. Continuano a paragonarci come i figli poveri di questa band solo perchi anch’io slappo sul basso; in realtà pur amando i Primus mi sento molto più vicino a soluzioni estreme; sul mio piatto troneggiano infatti NAKED CITY e MR. BUNGLE.
Questo non piace evidentemente a nessuna coraggiosissima label indipendente italiana visto che ci produrremo il primo lavoro in completa autonomia, del resto il panorama h evidente: qua ci becchiamo i CSI, i Marlene Kuntz o gli Afterhours come massimo grado di elevazione di sonorità alternative e/o spirituali, altrove fortunatamente esistono cose serie quali BARKMARKET, COPSHOOTCOP o HELMET.
E’ inutile. Noi italiani siamo stati grandi in campi come la pittura, la scrittura, la scultura perchi qui esse sono nate ma, sfortunatamente, il blues non è mai stato di casa qui e questo spiega i CSI, il CPI, il suo fallimento, Piero Pelù e Carmen Consoli e perchè il primo cd degli Splatter è stato autoprodotto ed il perchè è stato paradossalmente accolto bene da tutta la stampa. Leggete fra le righe e la soluzione a questa equazione vi apparirà davanti come d’incanto.
L’unica cosa di cui mi rammarico è il dover apprezzare un prodotto americano. Non è un mistero che America e americani mi facciano letteralmente vomitare come non è un mistero che il blues sia una risultante di tutto il dolore possibile ed immaginabile che solo una cultura degenere e schiavista come quella degli yankee è stata in grado di perpetrare. Bell’affare abbiamo fatto.

 
 
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